È in corso anche a Udine, oggi 25 settembre, in piazza XX settembre, promossa dalle «Donne in Nero», la manifestazione internazionale di solidarietà alle donne afghane in risposta all’accorato appello – «Alle donne di tutto il mondo e a quanti sono al nostro fianco: protestate, gridate e manifestate la vostra rabbia per le donne in Afghanistan» – delle attiviste di Revolutionary Association of the Women of Afghanistan – RAWA – l’Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane (qui il documento).
Anche a Oikos è stato dato spazio di pubblica parola, uno spazio per noi prezioso, ecco allora che come donne dell’associazione abbiamo scritto insieme e condiviso l’intervento che tra pochi minuti leggerà la nostra Anna Paola Peratoner, un intervento corale che è frutto della nostra pratica quotidiana di accoglienza, della progettualità, dell’impegno che innervano il nostro lavoro. Ecco qui il testo integrale.
Intervento corale delle donne di OIKOS
Vorrei ringraziare le Donne in Nero per averci dato uno spazio di parola pubblica che ci ha permesso di confrontarci, per poter esprimere il senso e la direzione del lavoro che in OIKOS stiamo facendo e che la vicenda afghana stimola e interroga.
Uso il “NOI” perché è una riflessione che ci siamo sentite chiamate a fare collettivamente, come donne che lavorano tutti i giorni in un’organizzazione del terzo settore che fa accoglienza, ieri di adulti, oggi di minori stranieri non accompagnati, e sviluppa progetti nei molti sud del mondo, anche quelli di casa nostra, avvicinandoci a tante marginalità.
Vorremmo subito dire che non parleremo di donne afghane, di donne pakistane, di donne bengalesi o maliane, che certamente sono le madri o le sorelle dei nostri ragazzi, ma parleremo di cultura e di educazione di genere, che ci riguarda tutte e tutti, perché ci sentiamo sempre di più chiamate a contribuire a un cambiamento culturale epocale, qui come altrove.
Cambiamento culturale epocale in che senso?
Nel senso che la violenza di genere e la discriminazione di genere – a cui cerchiamo di DISEDUCARE quotidianamente i nostri ragazzi stranieri, come peraltro i tanti ragazzi italiani delle superiori che incontriamo entrando a scuola con laboratori e progetti dedicati –, in realtà, permea, in modi più o meno visibili, con più o meno consapevolezza, la vita di tutte e di tutti noi e tanti settori e angoli del nostro Paese. Se non impariamo a fare i conti con questo dato di realtà, tanto quotidiano e familiare, quanto strutturale e sistemico, non riusciremo ad aiutare veramente le donne afghane. Perché continueremo a sottovalutare l’importanza dell’educazione alle relazioni di genere per tutte e per tutti, educazione che ognuna e ognuno dovrebbe fare nel proprio contesto.
Crediamo di poter fare qualcosa per le donne afghane, se cominciamo a dirci che non stiamo ancora facendo abbastanza. Nemmeno qui. E che c’è un lavoro enorme da fare con l’alto e con il basso, con le persone, incontrandole, ascoltandole, provocandole. E non solo con i ragazzi, ma anche con le ragazze. Perché prendere coscienza dei propri traumi, dei propri vissuti, dei propri modelli culturali è un lavoro lento e faticoso, ma che va fatto, se vogliamo costruire altre narrazioni possibili, e uscire quanto prima da queste derive violente, evidenti in Afghanistan, ma anche nei femminicidi e nelle reazioni scomposte di ancora tanta, troppa, parte del nostro Paese.
Ascoltando i ragazzi ospiti delle nostre comunità, spesso abbiamo avuto dei sussulti di fronte ad alcuni che ci dicevano “bene Talebani, ora donne col burqa non è grave e via americani dai nostri paesi”. Ma non si educa al rispetto dicendo loro che non capiscono nulla o giudicandoli, bensì vivendo con loro delle relazioni autenticamente diverse da quelle vissute fino a quel momento, e dimostrando cosa sia il rispetto, ascoltandoli e accompagnandoli in percorsi di autoconsapevolezza.
Come detto in premessa, non parleremo di donne afgane e, provocatoriamente, diciamo che, ancora oggi, per le ragazze afghane e per le ragazze italiane, vale la medesima stigmatizzazione violenta: se sei afghana e cammini per strada completamente coperta, puoi comunque salire solamente sui mezzi pubblici per donne e puoi studiare solo con le donne e, questo, non è ritenuto globalmente così grave, perchè è globalmente accettato anche che tu sia italiana e ti venga detto, tutta la vita (da uomini e da donne), che devi coprirti perchè “non va bene”, perchè “chissà chi incontri per strada”, come fosse cosa normale e scontata la violenza degli uomini sulle donne, oppure sia scontato e normale che tu debba passare tutta la vita, sulla via di ritorno la sera, accelerando il passo e stringendo le chiavi di casa in mano… sapendo che se succedesse il peggio, nella maggior parte dei casi “te la sei cercata”.
Perché succede e non ci ribelliamo? Perché abbiamo tutte e tutti introiettato modelli che solo nel confronto continuo, in un costante lavoro di autoconsapevolezza e di riflessione, anche sull’uso delle parole, si riescono a combattere e a mettere in discussione. E solo se saremo capaci di affrontare insieme questa sfida epocale sapremo di aver fatto il nostro dovere.
Parlare dei ragazzi afghani che accogliamo come “culturalmente sessisti o patriarcali” rischia di ergerci anche noi, inconsciamente, a detentrici di quelle verità che il patriarcato neo-colonialista ha reso sistematico, rischiando, dall’alto del nostro percorso di emancipazione femminile, di ritenerci in diritto di condannare e basta. Sia chiaro, non è che non vogliamo condannare! ma non vogliamo prestare il fianco a facili semplificazioni, quando di fronte la sfida ci appare epocale, universale e globale e quindi non etnicamente identificabile.
Riconoscere i meccanismi che stanno alla base della violenza e, soprattutto, riconoscere quanto essi siano radicati culturalmente, seppur inconsapevolmente, in ogni individuo, è essenziale per riflettere su quanto gli stereotipi e i pregiudizi influiscano sul nostro comportamento, sulle relazioni che intessiamo e, in generale, sulle scelte personali che compiamo.
Per questo, ad esempio, uno dei nostri laboratori porta proprio questi contenuti.
“Stereotipi e pregiudizi”, infatti, condizionano pensieri ed azioni, costituiscono i mattoni con cui vengono costruiti i muri che separano le persone, impediscono la reciproca conoscenza, e incentivano dinamiche di giudizio e di conseguenza la non accettazione nei confronti di ciò che è diverso. Rappresentano, dunque, un ostacolo alla libera espressione di pensieri, emozioni, convinzioni personali, contribuendo a costruire una società basata sui limiti imposti da una rigida definizione dei ruoli, che rappresenta un terreno di facile sviluppo di comportamenti violenti, qui come altrove.
Per noi che lavoriamo con le marginalità, con le disuguaglianze e con le vittime di tratta e di violenza, più o meno visibile, la prima parola d’ordine è la “non violenza”, che consideriamo come valore, come prassi anche nel linguaggio e come scopo ma, anche, come scelta etica, che si traduce in azioni e in comportamenti, finalizzati al raggiungimento di obiettivi di giustizia sociale. E la seconda parola d’ordine è la “lotta alle disuguaglianze”, che oggi ci interroga tutte e tutti.
Chiara Volpato, nel suo recente saggio, “Le radici psicologiche della disuguaglianza”, porta il contributo fondamentale della psicologia sociale sul tema delle diseguaglianze, finora soprattutto appannaggio degli economisti, e approfondisce le dinamiche che reggono le diseguaglianze: come queste vengano costruite, nascoste, interiorizzate con i meccanismi di assoluzione, colpevolizzazione, colonizzazione e come si fortifichino con gli atteggiamenti di dominanza e di sottomissione. Alla radice delle diseguaglianze risiedono percezioni distorte che, in modo sistematico, le banalizzano. Ed esistono processi di legittimazione, da entrambi i gruppi: quello dominante e quello che subisce. Questi ultimi concorrono entrambi – spesso inconsciamente – alla conservazione delle diseguaglianze secondo meccanismi di psicologia sociale che si fondano su tre fattori reciprocamente rinforzanti: legittimazione, stabilità e permeabilità.
Quindi è fondamentale, per il futuro delle nostre società, per la loro coesione, per la loro sostenibilità politica e istituzionale, andare ad affrontare le cause più profonde della perpetuazione delle diseguaglianze, non solo le cause economiche e di strategia politica internazionale, ma anche di origine psico-antropologica e di genere.
Come OIKOS siamo consapevoli dell’enorme diversità di approccio tra lavorare per lenire la povertà e lavorare per eliminare le diseguaglianze e le discriminazioni e crediamo sia necessario spingere la marcia per sentirci tutte e tutti chiamate e chiamati a lavorare nel secondo senso, in un’ottica – e questo possiamo farlo! – psico-antropologica, in cui nessuna e nessuno deve sentirsi chiamata e chiamato fuori: costruire relazioni basate sul rispetto, sul riconoscimento dell’altra e dell’altro, in quanto essere umano di pari valore e dignità è un percorso lungo, ma imprescindibile ed urgente, anche nei nostri contesti lavorativi, associativi e comunitari, anche di sinistra, perché solo il cambiamento di paradigma culturale ci salverà.
È con questa consapevolezza che siamo qui oggi – in una piazza della nostra città, abitando uno spazio pubblico nel nome delle sorelle afghane – per accompagnare e sostenere la coraggiosa lotta delle donne che stanno sfidando il regime, manifestando per i propri diritti. E siamo qui oggi per difendere il sogno delle tante ragazze che – pur tra mille difficoltà – avevano creduto davvero di poter studiare e decidere del proprio futuro.
Senza che la loro libertà sia piena, nemmeno la nostra lo sarà davvero, senza che i loro diritti siano riconosciuti nemmeno i nostri lo saranno davvero. Siamo qui oggi perché la loro resistenza è la nostra resistenza.