“Com’è che sei finita in Burundi?”, mi chiedevano. “Un po’ per caso” ho sempre risposto io. Quando vidi, sul sito del Comune di Basiliano, il bando per la ricerca di alcuni ragazzi del Comune da mandare in Burundi per il progetto Santè à Muyinga (progetto a cui hanno collaborato Amahoro, Oikos e la parrocchia di Majano, e finanziato dalla regione Friulki Venezia Giulia), non pensavo avrei fatto domanda. Poi, a pochi minuti dalla chiusura dell’ufficio comunale per la consegna della richiesta, mi sono ritrovata ad entrare in Municipio con tutta la documentazione in mano. Questo accadeva a maggio. Pochi mesi dopo, il 1 ottobre, sono partita. Destinazione: Rugari, piccolo villaggio a nord est del Burundi.
Sono salita su quell’aereo senza grandi aspettative, con tanta curiosità e voglia di mettermi in gioco, immaginando che le mie certezze da “occidentale che vede l’Africa dalla tv” potevano essere stravolte da un mondo che è l’opposto di quello in cui viviamo e che è molto diverso da quello che immaginiamo. Sono partita con quel pizzico di incoscienza dei 24 anni, quello che ti fa dire “ma sì, perché non provarci! In fondo quando mai mi ricapiterà un’occasione del genere”. Sono atterrata a Bujumbura, la capitale, e sono stata travolta da un ciclone fatto di suoni, colori, odori, persone. Una di quelle cose che immagini per una vita e poi, ad un tratto, ci finisci in mezzo. Un paio di cose mi hanno colpita subito: le auto e le moto che sfrecciavano apparentemente senza seguire delle regole precise: ad esempio, qualche auto ha la guida a destra qualche altra ce l’ha a sinistra, e io ancora non mi capacito di come capissero le precedenze. Poi le biciclette: anche queste correvano facendo slalom tra le auto, e i ciclisti trasportavano pesi enormi sui loro mezzi a due ruote (banane, carbone, mango e avocado). Poi c’erano le persone a piedi, coloro che non possono permettersi alcun mezzo di trasporto, e anche loro, nessuno escluso, portavano in testa sacchi contenenti cibo, cestini con vario materiale e a volte addirittura qualche materasso. Se queste persone erano madri spesso ai pesi portati in bilico sopra la testa si aggiungeva un bambino legato sulla schiena.
Dopo un giorno nella capitale ci spostiamo a Rugari, un piccolo centro rurale a pochi chilometri dal confine con la Tanzania. Se Bujumbura mi ha travolta, l’arrivo a Rugari è stato un vero e proprio shock culturale: niente acqua, niente elettricità, piccole case di terracotta, cibo tipico, poche persone che parlano un francese incerto, e tutti che parlano il kirundi, di cui io non capisco una singola parola (e dopo un mese il mio livello non è migliorato di molto). A Rugari per tutti ero la muzungu, la bianca, e quando sei una delle pochissime bianche che vedono significa essere fermati da tutti coloro che ti incontrano per strada, significa bambini piccoli che piangono perché hanno paura e bambini un po’ più grandi che ti toccano, ti chiedono foto, ti vogliono stringere la mano, che vogliono vedere i tuoi capelli lunghi, che urlano per chiamare a raccolta tutti i loro amici. Essere l’unica bianca vuol dire avere conversazioni come “Sai Jean oggi sono andata a visitare il mercato” e avere risposte come “lo so già, mi hanno detto di averti vista”. A Rugari ho vissuto il Burundi in famiglia grazie ai parenti di Don Emmanuel Runditse, che mi ha fatto vedere e mi ha raccontato la quotidianità del Burundi rurale.
Se Rugari è un villaggio, Ngozi è una delle città principali del Burundi. A Ngozi, con Chiara e i vari medici italiani che lavorano nell’ospedale governativo, ho vissuto il Burundi cittadino. Ho scoperto quanto è bello fare la spesa al mercato, quanto possono essere buoni i manghi e i maracuja. Ho comprato il cibo ai bordi delle strade, ho scoperto la dura realtà dei bambini di strada, e ho conosciuto il progetto di Giriteka, che si occupa di loro permettendogli di andare a scuola, dandogli un posto dove dormire e insegnando loro un mestiere. A Ngozi ho conosciuto i molti modi in cui la cooperazione internazionale lavora nel Paese. In ospedale ho visto casi che per noi occidentali sono inimmaginabili, ma che in Burundi sono la normalità.
“Com’è il Burundi?” mi chiedono. Il Burundi è incredibile e il più delle volte ti lascia senza parole. Ha paesaggi straordinari: ci sono le colline, ricoperte di vegetazione verde scuro delle piantagioni di caffè, e ci sono le valli, tinte del un verde chiaro splendente del mais e del riso, e piene di bambini che raccolgono l’acqua dalle fonti. Il Burundi è la terra rossa che si attacca addosso dopo una giornata all’aria aperta. Il Burundi è imparare a lavarsi prendendo l’acqua da un secchio, è scoprire cibo nuovo e pensare che al ritorno un po’ ti mancherà, è dormire sotto ad una zanzariera e riempirti di antizanzare mentre i burundesi ridono di te. Il Burundi è imparare come si costruisce un edificio; è costruire, con gli operai del cantiere, rapporti di fiducia che si basano sul nulla, ma che dopo poche settimane li ha fatti diventare “i miei ragazzi”. Essere un bianco in Burundi vuol dire doversi conquistare la fiducia dei bambini, ma vivere momenti di rara felicità quando sono loro i primi a correrti incontro. Il Burundi è riuscire a comunicare in una lingua di cui non sai neppure una parola, ma i sorrisi e gli abbracci lì acquistano un significato enorme. Sono arrivata in Burundi convinta che mi sarei sentita da sola, sono ripartita sentendomi parte di una famiglia, dove anche chi ha pochissimo è riuscito a darmi il suo tutto.
Il Burundi è stato anche l’incoscienza e la leggerezza dei 24 anni. I “quando si riparte?” e i “questo è solo un arrivederci” perché io in Burundi ho lasciato un pezzetto di me.