Era da mesi che cercavo la possibilità di partire per l’Africa ma purtroppo per i medici neo abilitati non è così facile partire e stavo iniziando a darmi per vinta. Poi ho sentito parlare della fondazione pediatrica di Kimbondo, nella periferia di Kinshasa; ho cercato informazioni su internet e visto dei video su Youtube: la decisione di partire è stata pressoché immediata. Ho lasciato Udine cercando di non crearmi nessuna aspettativa, con l’intenzione di fare dentro di me “tabula rasa”, consapevole del fatto che stavo per immergermi in una realtà di cui noi, fortunati occidentali, non abbiamo una reale consapevolezza, se non quella mediata da immagini televisive. Ed effettivamente lo shock culturale, ma anche quello emotivo, è stato forte, fin dal primo giorno.
La pediatria di Kimbondo è un’oasi di allegria e sicurezza in un paese in cui guerra, violenza, fame e malattie sono parte del vivere quotidiano. Nella Neonatologia di Kimbondo (la casa dell’orfanotrofio che ospita i più piccoli, dagli 0 ai 5 anni) l’atmosfera che si respira è tutt’altra: bambini gioiosi e spensierati che dopo poche ore avevano già imparato il mio nome e facevano a gara per giocare con me e farsi prendere in braccio. Bambini a cui basta davvero poco, direi nulla, per essere felici e contagiarti con la loro risata: con un foglietto di carta trovato per terra possono giocare per ore, una semplice caramella si trasforma in un dono speciale per loro che sono abituati a mangiare riso ad ogni pasto di ogni giorno. Eppure non esistono capricci ed i bambini più grandi si prendono cura instancabilmente dei più piccoli e di quelli ammalati. Non si direbbe mai che nonostante la loro giovane età, abbiano già vissuto momenti terribili, combattuto battaglie che li hanno resi forti e che hanno reso il loro sguardo, il loro sorriso ed il loro pianto, unici e che solo qui ho visto. Abbandonati, anche piccolissimi, perfino nella foresta, malnutriti, spesso HIV positivi, provenienti dalla strada o da altri orfanotrofi, senza un passato alle spalle, senza fratelli o sorelle con cui condividere l’infanzia, senza genitori su cui fare affidamento, senza un compleanno da festeggiare. Ma questi bambini sorridono, un sorriso spontaneo, vero, luminoso ed il motivo mi è stato chiaro fin dal primo momento: una famiglia l’hanno trovata, e un po’ l’ho trovata anch’io, nonostante il poco tempo passato assieme. E’ così che ci si sente ogni giorno a Kimbondo, anche grazie agli altri volontari e a Padre Hugo che come un “nonno” affettuoso si prende cura, con mano ferma, di tutti i bambini. Nonostante la lontananza da casa, la diversità dell’ambiente e delle abitudini, nonostante la scarsità o l’assenza di beni e servizi (acqua potabile, elettricità, pannolini, ecc.), che oggi ho imparato a riconoscere quali lussi, nonostante la diffidenza di certi congolesi nei confronti della nuova “mundele” (bianca), nonostante tutto ciò ed altro ancora, mi sono sentita a casa.
Non dimenticherò mai la prima volta che ho preso in braccio un bambino malnutrito, la sensazione di essere a contatto con ogni singolo ossicino e sentire il suo cuore battere rapido e forte, in superficie. I bambini a cui penso ogni giorno sono tanti, ma un posto speciale è riservato a Tamara. Tamara, che dietro i soli suoi sei kg, ha dimostrato una capacità di lottare e una voglia di vivere che mi hanno insegnato molto e che, sono sicura, non potrò mai dimenticare. Uno sguardo che ti rimane impresso nella mente, che porterò sempre con me; nei primi giorni lo sguardo era l’unica cosa con cui comunicava, il corpo era troppo debole per muoversi o parlare. Ogni giorno ci assicuravamo che facesse almeno un pasto completo e col passare dei giorni Tamara è tornata alla vita; poter assistere a questo cambiamento è sicuramente il regalo più bello che Kimbondo mi ha voluto fare: ha iniziato a mangiare da sola, a stare in piedi e poi addirittura camminare, ma soprattutto sul suo volto è comparso il sorriso e negli ultimi giorni, anche qualche parolina. Non a caso, il suo nome prima di essere adottata dalla Pediatra era Life. E’ bastato poco per farla stare meglio, non era necessaria nessuna conoscenza medica specifica ma semplicemente la voglia di stare con lei e di farla mangiare. Eppure quel “poco”, a cui la maggior parte di noi non pensa nell’arco di un’intera vita, troppo spesso manca e molti bambini non ce la fanno.
Gill è nato senza braccia ed è stato abbandonato dalla famiglia, come spesso succede ai bambini con handicap in quanto ritenuti “stregoni”; non per questo si è perso d’animo, come molti potrebbero pensare. Ha infatti imparato a mangiare, giocare, raggiungere tutto ciò che gli serve e perfino scrivere coi piedini; ci tiene molto alla sua autonomia e appena può è pronto ad aiutare.
Gill e Tamara, come molti altri, rappresentano per me il messaggio più importante che Kimbondo ha da offrire: nonostante tutte le difficoltà, il loro duro passato e le poche chances che sembravano avere appena arrivati, ce l’hanno fatta. Non si sono lasciati abbattere dalla miseria e dall’indigenza che li circondava e in cui vivevano; la voglia di riscatto ha prevalso ed oggi sono di nuovo felici di essere al mondo. Nel sorriso di Tamara, nella camminata di Cris (un altro bambino malnutrito accolto alla Neo) e nella spensieratezza di Gill ho visto infatti un’immensa volontà e sono sicura che saranno in grado di affrontare qualsiasi altro ostacolo potranno trovare nella loro vita. A chi si chiede se con il volontariato si possa fare una reale differenza rispondo con un convinto si: io so che una differenza, seppur piccola, nella vita di Tamara e di altri bambini l’ho fatta e so anche che quello che ho imparato davvero è che la grande differenza l’hanno fatta loro in me. Questo a me sicuramente basta per dare un senso al mio mese in Congo.
La realtà che ho vissuto nel reparto di Terapia Intensiva è molto diversa: nei lettini di questa stanza vengono accolti i bambini più gravi, affetti soprattutto da malattie di natura infettive (malaria, meningite, infezioni cutanee), problemi cardiaci e malnutrizione grave. I presidi qui disponibili sono davvero pochi: gli unici esami ematici che vengono fatti di routine sono l’emocromo, il test per la malaria e lo stick glicemico; tra le indagini strumentali, si effettuano soltanto l’ecografia e la radiografia, ma la maggior parte dei piccoli pazienti non accede a queste analisi. Con queste poche informazioni e con l’esame clinico bisogna essere in grado di fare una diagnosi. Un modus operandi del tutto diverso da quello a cui siamo abituati qui in Italia, fatto di tanta burocrazia, richieste d’esami spesso inutili, visite condotte in fretta e spesso superficialmente.
Il personale del reparto mi ha accolto a braccia aperte ed è bastato farmi trecciare i capelli alla congolese per conquistare la fiducia anche delle infermiere più diffidenti, così ho sempre avuto il giusto livello di autonomia e quando ho fatto le prime rachicentesi con successo i medici erano davvero orgogliosi di essere stati loro a farmele fare per la prima volta, come se non gli sembrasse vero di poter insegnare qualcosa di nuovo ad un medico occidentale. In Congo, richiedere un esame, anche banale quale un ematocrito, significa chiedere alla famiglia del paziente di spendere una parte significativa del loro reddito e quindi obbligarli, ad esempio, a rinunciare all’acquisto di alimenti per gli altri componenti. E’ un peso che i medici italiani ovviamente non hanno ma con cui, qui, si deve imparare a convivere. La parte più dura di quest’esperienza è stato sicuramente il dover accettare il fatto che ogni giorno, in terapia intensiva, si spegnesse la vita di (almeno) un bambino. All’inizio è stato difficile non cedere al giudizio nei confronti di alcune famiglie che spesso portano i bambini in ospedale solo quando è troppo tardi, affidandosi più ai rimedi tradizionali che alle misure mediche. A volte mi sembrava di essere più coinvolta nella malattia o morte di un bambino rispetto alla madre e questo mi ha fatto riflettere su quanto può essere diversa la concezione della vita e della morte tra culture e società diverse. Durante un’escursione mi sono lamentata della scortesia di alcuni passeggeri con l’autista, stretto collaboratore di Padre Hugo, che in tutta risposta mi ha detto: “On support tout”, si sopporta tutto; ho visto madri africane, spesso giovanissime, sopportare davvero di tutto e così ho imparato a rispettare il loro silenzio e la loro apparente indifferenza.
Una volta tornata, svegliarmi e uscire di casa senza vedere un gruppo di bambini corrermi incontro ridendo mi ha riempito di tristezza; la sera, ho sentito la mancanza del rumore del vento tra il bamboo e degli uccelli notturni, gli stessi che mi avevano fastidiosamente tenuta sveglia i primi giorni. Dopo essere stata a Kimbondo non si può più tornare indietro, non si può e non si deve rimanere indifferenti: per questo la voglia di tornare è tanta. So che la mia strada mi riporterà a Kimbondo, ma sono anche consapevole di dover prima maturare maggior esperienza in campo pediatrico. Il mio augurio per la Pediatria di Kimbondo è che pian piano, malembe malembe come si dice in lingala, le cose possano funzionare sempre meglio per permettere a questi bambini di trovare tutta la felicità che si meritano e di potersi costruire un futuro dignitoso e di speranza.
Giulia Chiopris
Voglio ringraziare OIKOS e AGAPE per avermi dato la possibilità di partire e voglio ringraziare Marta e Manuel, senza i quali il mio mese in Congo non sarebbe stato, senza alcuna ombra di dubbio, lo stesso.