Tre storie da Kinshasa: l’esperienza di volontariato internazionale di Eleonora, Michele e Cristina
Prima di partire per una nuova esperienza ci sono molti dubbi, incertezze e aspettative. Spesso la domanda è “ne varràla pena?”. I racconti dei volontari partiti l’anno scorso per Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo, con un campo di volontariato internazionale, rispondono appieno a questa domanda.
Ecco qui alcuni stralci della loro esperienza!
Partiamo dall’inizio: Dove siamo andati?
La nostra esperienza di volontariato internazionale si è concentrata nella periferia di Kinshasa presso la pediatria di Kimbondo. Ci sembra doveroso spiegare che cosa si intenda con il termine “pediatria”.
Quindi, la struttura non è un edificio su più piani con all’interno il solito odore di ospedale e tanti bimbi curati e ben vestiti. Sembra piuttosto un vecchio albergo sulla sommità di una collina sabbiosa con padiglioni scomposti da pareti di calcestruzzo su un unico piano e tetti in lamiera.
Qui i bambini e ragazzi per lo più orfani da 0 a 20 anni trovano una speranza di vita.
ELEONORA: Un mattone alla volta
Noi ragazzi oltre a vivere all’interno della pediatria passavamo lì la maggior parte del tempo. Ci piaceva tanto giocare con i bambini, ma ci premeva soprattutto posare un mattoncino sul muro delle attività. Non ci lasciavamo sfuggire i lavori di manovalanza più disparati: abbiamo sistemato 2 magazzini di Casa Patrick, il padiglione dei ragazzi disabili in cui abbiamo passato molte giornate. A questo padiglione faceva capo Marta, un riferimento molto importante per il nostro gruppo, nonché dispensatrice di consigli e sorrisi. Sempre lì abbiamo dipinto una piccola parete rendendo un po’ più colorato e accogliente un padiglione spesso evitato da bambini e volontari, perché odori e qualche scena non sono facili da affrontare a lungo. Uno dei primi giorni ho deciso assieme alle ragazze di aiutare a dare da mangiare ai bambini più in difficoltà ed è stato difficile tornarci i giorni successivi, ma l’abbiamo fatto finché verso la fine del viaggio era diventato impossibile starne lontano.
Con il passare dei giorni si avvicinava il rientro a scuola, allora siamo stati contenti di poter preparare tutti i bimbi del padiglione al loro primo giorno: abbiamo scelto mutande e scarpe, provato le divise e scritto i loro nomi sulle camicie, manicure e pedicure non potevano mancare. È stata una grande soddisfazione vedere i loro sorrisi, ci siamo sentiti un po’ parte del loro entusiasmo.
Michele ha anche costruito una tenda per cercare di risolvere il problema delle mosche attorno ai bambini. Con dei pali di bambù, una zanzariera inutilizzata e una forcina per capelli per cucire insieme i pezzi, è stato uno dei suoi ingegnosi lavori laggiù, ma ve li spiegherà meglio dopo.
Molto divertente era anche il tempo passato al padiglione della Neonatologia, che accoglie i bambini più piccoli dagli 0 ai 5/6 anni. Era sufficiente passare vicino all’entrata, e i bambini sembrava scappassero dal padiglione per correrci incontro e arrampicarsi su di noi. Le coccole per loro non erano mai abbastanza.
Uno dei regali più ambiti dai bambini donati dai volontari era la loro valigia. Quando siamo partiti abbiamo portato con noi una valigia aggiuntiva che sapevamo avremmo lasciato là al bimbo che ne aveva più bisogno. Per farsene cosa? Semplicemente il loro armadio per riporre tutti i loro oggetti e vestiti, al posto di scatole di cartone poco sicure ed igieniche.
MICHELE: i dettagli che rendono un’esperienza unica
Per me la giornata iniziava tra le 5:00 e le 6:00 quando per i crampi alla pancia e per il giardiniere che spazzava le foglie di bambù sotto la finestra, si faceva mattina. Verso le 7:00 io e Cristina scendevamo giù a Matshuku . Il sentiero iniziava esattamente davanti alla porta di casa e scendeva rapido attraverso la foresta. Non si trattava di una foresta fitta ed impenetrabile ma una giovane, con piante e alberi non troppo grandi, estremamente verde e colorata. Fin dal mattino era molto rumorosa per via del forte vento tra le foglie e il canto di uccelli ed insetti. Tuttavia, la fauna che abbiamo incontrato consisteva solo in farfalle, lucertole e dei “piccoli” millepiedi (…). Dopo qualche minuto di discesa si giungeva a Matshuku un terreno di 15 ettari, dei quali solo 5 sono coltivabili, per via dell’erosione e delle conseguenti frane.
Il nostro compito mattutino consisteva nel verificare la presenza a lavoro degli operai e constatato ciò aiutavamo Blaise, uno degli operai, a pulire i contenitori di mangime e acqua dei polli. Con i giorni ho seminato l’insalata della nonna che dopo 5000 km ha avuto la forza di crescere. Poi tutti insieme abbiamo seminato circa 54 alberi di Papaya. Quindi, io e Cristina, prendevamo un vecchio annaffiatoio sgangherato e andavamo a riempirlo d’acqua in un pozzo scavato a mano vicino al ruscello per poi annaffiare.
In questo mese ho avuto la fortuna di pescare o meglio “raccogliere i pesci” da uno dei 3 stagni, perché normalmente non si usa una canna o una rete, ma si svuota direttamente il laghetto per poi prendere i pesci intrappolati nel fango. Eppure, mangiare la sera il pesce pescato in Congo ha proprio il sapore di un’esperienza unica.
CRISTINA:Uno sguardo sul futuro
A 5 minuti a piedi dalla Pediatria si trova un’altra zona in cui trascorrevamo il nostro tempo, cioè Okapi, il cui nome deriva dal tipico animale congolese ormai in via d’estinzione. Okapi è una boutique/terrasse, frutto dell’ingegno di Manuel, che ha lo scopo di implementare la sostenibilità del polo agricolo e della Pediatria stessa. Qui si possono trovare in vendita tutti i prodotti del polo agricolo “Machuko”, come verdure (melanzane, amarant, pundu, eccetera) e uova. Okapi, inoltre, è anche “Terrasse”, ovvero uno spazio in cui si può gustare tranquillamente seduti a dei tavoli qualche piatto tipico congolese o semplicemente bere una bibita fresca. Okapi per noi era “fondamentale”, era infatti anche il nostro punto di incontro serale, dove potevamo parlare senza disturbare la Pediatria, e assaporare i piatti tipici congolesi, di cui è strano a dirsi, ma ne andavamo matti. Per esempio il fufu, simile alla polenta ma fatta con farina di mais e manioca, accompagnato dalle verdure locali (ngay ngay, pondu, amarant, epinard..), la Chicuanga (manioca fermentata), platani fritti, o più semplicemente un panino con l’omelette.
Per quanto possa sembrare in contrasto con i monumentali problemi della città, dalle epidemie dilaganti, l’assenza di servizi, ai rifiuti bruciati ad ogni angolo… le persone sono tranquille, con il volto disteso e non negano mai un saluto nemmeno a noi “mundele”. Il nostro tempo è trascorso per la maggior parte con i bambini ed è proprio per loro che ogni sforzo va fatto. Se chiedete a qualsiasi volontario o cooperante la risposta è sempre la stessa ovvero si fa per dare una speranza ai più piccoli che un giorno saranno a loro volta speranza.
Un’altra cosa che spesso dimentichiamo è il contenitore in cui viviamo, l’ambiente. Kinshasa non è uno specchio sul passato bensì sul futuro. Sfruttare risorse senza freni, produrre montagne di rifiuti e distruggere tutto quello che ci circonda è il miglior modo per distruggere noi stessi. Padre Hugo, coordinatore della pediatria, ci ha detto che siamo la speranza del mondo e io vorrei estendere a tutti questo messaggio.
Debrouillez-vous!
È difficile riassumere ciò che abbiamo provato in qualche minuto senza apparire un po’ magari scontati o freddi. Quello che posso dire senz’altro è che è stata un’esperienza intensa, forte, dove l’impatto di ciò che vivi, bello o brutto, viene amplificato. Le difficoltà sono oggettive: si è a contatto con la povertà, il bisogno di amore dei bambini, le incoerenze di un popolo lontano dal nostro, tanto che ad un certo punto del viaggio mi sono chiesta quale fosse la mia utilità lì, poiché i miei passi erano già relativamente piccoli e sembrava che tutto andasse nella direzione opposta. Poi ci ho riflettuto, farlo laggiù è ancora più difficile perché sei perennemente travolto dagli eventi. Sul mio diario di viaggio ho scritto questo in proposito “Sono una goccia nell’oceano, ma sto dando me stessa e magari questo poco produrrà i suoi frutti in un futuro forse lontano. Sarà sempre un passo avanti e una speranza in più per i bambini che sono qui oggi e quelli che verranno.” Perché di questo si tratta, dare speranza ad una realtà che merita di proseguire, perché dona futuro a chi un futuro non ce l’avrebbe mai avuto se la Pediatria non fosse esistita, attraverso un tetto, del cibo e una scuola. Come la piccola Marie, una bambina arrivata con soli 5 giorni di vita mentre noi eravamo lì, che ha dormito qualche notte con noi perché affidata per i primi tempi ad una volontaria spagnola: orfana di madre e con un padre che non poteva occuparsi di lei, la Pediatria ovviamente ha detto sì. Come recita il quindicesimo articolo della Costituzione congolese “Debrouillez-vous”, rimboccatevi le maniche e datevi da fare, non restate a guardare, fate accadere le cose. Magari iniziate facendo domanda per un campo di volontariato internazionale 2019!
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