Se dieci anni fa mi avessero chiesto “Come ti vedi tra 10 anni?”, avrei risposto “Mi vedo in Africa, mi vedo infermiera e mi vedo sposata con la persona giusta.” Kimbondo è in poche parole la realizzazione perfetta del mio sogno più grande. Ho 24 anni, e assieme a Manuel, 30, abbiamo sostanzialmente dato inizio alla nostra vita matrimoniale qui in Congo. Siamo entrambi cooperanti con Oikos Onlus; io porto a termine il progetto New Neo, precedentemente seguito da Agnese, e Manuel cura il progetto di Kinta. Questa è una semplice pagina di diario sulla mia vita da infermiera italiana a Kimbondo.
Terapia Intensiva al mattino, Neonatologia al pomeriggio
Oltre a seguire il progetto New Neo, il mio lavoro consiste nel fornire apporto infermieristico alla NEO, la Neonatologia, al pomeriggio, e alla Terapia Intensiva, al mattino. Sono bastati i primi cinque minuti del primo giorno di lavoro per capire che non valeva nemmeno la pena fare un confronto tra la Terapia Intensiva Pediatrica dove ho lavorato in Italia e quella dove, per una buona fetta di tempo, d’ora in poi lavorerò. Non mi sento però di fare alcuna critica a riguardo, elencando le tante cose che non funzionano o che andrebbero indiscutibilmente corrette. Non è per portare il mio mondo così schematico e rigoroso che sono venuta qui, ma per portare me stessa, il mio contributo e le mie conoscenze, cercando di dare una mano e supervisionare il lavoro dei miei colleghi, con attenzione ma allo stesso tempo umiltà, perché anch’io, qui, ho molto, moltissimo da imparare.
Cosa impara un’infermiera in Congo
Prima di venire qui non avevo mai curato un paziente malarico. Non sapevo riconoscere la cianosi in un paziente nero, semplicemente perché non l’avevo mai vista. Ignoravo che prendere una vena in una persona con la pelle nera , bambino o adulto che sia, non è più difficile che in una persona con la pelle bianca, l’anatomia in fondo è la stessa. Non avevo idea di che cosa significa dover lasciare andare un bambino al suo destino perché mancano le medicine per poterlo urgentemente curare in tutto l’ospedale e la madre non ha i soldi per comprarle all’esterno. Non sapevo cosa significa vedere morire tre bambini in una stessa mattinata. Non sapevo che cosa si prova nel vedere una bambina in coma da malaria, dopo che per giorni ho cercato di scacciarle le mosche di dosso, di lavarla e abbassarle la febbre con lo stesso pagne (tipico tessuto africano) imbevuto d’acqua piovana per una settimana intera, cantandole canzoncine improvvisate con il mio francese maccheronico, risvegliarsi e uscire dalla Terapia Intensiva con le sue gambe, dopo avermi regalato il sorriso più bello di sempre, ricco di tacito affetto e gratitudine.
Passione e affetto
Chi lavora in ospedale è abituato molto più che altre persone a separare il lavoro e le esperienze che si avvolgono attorno alla propria vita professionale dalla propria vita privata. Questo è ciò che ogni giorno mi salva dall’oltrepassare il sottile confine che intercorre tra il fare bene il mio lavoro con passione, trovando il mio posto e la mia dimensione qui, e il farmi mangiare da tutto questo. Tuttavia ciò non significa rimanere impassibili di fronte alla miriade di emozioni di ogni genere che questo mondo ti offre continuamente. Perché anche se siamo qui per seguire un determinato progetto, rimanere distaccati da tutto ciò che vi è attorno è pressoché impossibile. Chiunque, dai bambini più piccoli ai ragazzi e ragazze più grandi, hanno un immenso e disperato bisogno d’affetto. E se si è persone, come noi, con uno spiccato spirito materno e paterno è impossibile non legarsi in qualche modo a loro. E accorgersi poi che non sono soltanto loro ad aver bisogno di noi ma anche noi in qualche modo di loro.
Maria Jose
Una tra quelli a cui so già rimarrò eternamente legata è Marie Jose, piccola figlia di Kimbondo di circa tre anni. Quando sono arrivata, a fine gennaio, non camminava, quasi non si muoveva, non sorrideva, non parlava. Se ne stava in un angolo a gambe incrociate e osservava la vita degli altri bambini passare. Non aveva nemmeno la forza per mangiare e bere da sola. Drepanocitosi e malnutrizione non le permettevano di crescere in maniera normale assieme a tutti i suoi 125 fratellini e sorelline della NEO. Inoltre continue malattie con successivo ricovero in Terapia Intensiva la debilitavano sempre più. Ho sentito che per lei non dovevo essere soltanto una semplice infermiera, dovevo anche essere un po’ la mamma che non ha mai avuto, perché con un trattamento di qualunque genere ma senza un’ adeguata dose di affetto non avrebbe mai fatto sufficienti progressi.
Nel posto giusto
Ora, dopo un mese e mezzo, mangia (e aggiungerei, di gusto) in completa autonomia, da più di tre settimane non va in Terapia Intensiva, riesce a camminare se tenuta per mano ma soprattutto è felice. Ride tanto, chiacchiera, gioca con gli altri bambini e poco alla volta sta diventando una bambina “normale”, capace di farsi strada da sola nella non facile vita dei bambini della Neo e di tutti gli altri piccoli abitanti della Pediatria di Kimbondo. Ora che Marie Jose sta meglio mi sto occupando primariamente di altri bambini, i cui bisogni e le cui cure sono ora più urgenti e la cui salute più fragile, pertanto è diminuito molto il tempo che passiamo insieme. Eppure ogni giorno, quando entro alla Neo, vederla venirmi incontro piena di energia, urlando il mio nome dalla felicità mi fa puntualmente sentire un tuffo al cuore dalla gioia. Sono infinitamente orgogliosa di lei, che ce l’ha fatta. La sua felicità è contagiosa, e mi ricorda ogni giorno il motivo per cui sono qui. Qui, nel posto giusto.
Marta Battaini
Pediatria di Kimbondo, 14/03/2017