Finalmente arrivati a Kinshasa. Sceso dall’aereo, in un caldo appiccicoso mi accoglie una debole pioggia e il buio totale dei Tropici. Svolte le fastidiose formalità burocratiche subito Padre Hugo a darmi il benvenuto e siamo pronti a partire per la Pediatria di Kimbondo. L’estenuante viaggio dall’aeroporto alla Pediatria dura quasi tre ore, tra inquinanti veicoli a motore di ogni genere in perenne fila, strombazzanti, indisciplinati e sempre pronti a prendersela con le incapacità del conducente più vicino. Mi colpisce l’enorme massa di persone, perlopiù giovani, che a piedi si dirigono in modo disordinato verso le baraccopoli di provenienza. Ci sono lavoratori che tornano a casa, adolescenti che fanno sfoggio delle loro belle camicie per provare a fare colpo sulle belle ragazze e i venditori che riportano a casa il carico invenduto della giornata – ananas, banane, papaye, ma anche lattine di Red Bull e altre cianfrusaglie (nel periodo in cui sono stato in Congo sembravano avere particolare successo i venditori di sturalavandini).
Nel buio della strada gli occhi scuri e curiosi dei passanti o della massa di persone intrappolate nei furgoncini ti scrutano mentre tu, dalla pelle bianca e ben vestito, sicuramente più fortunato di loro, attraversi la loro città per chissà quale affare. L’inquinamento di Kinshasa è terribile, dopo pochi minuti di ingorghi e ampi respiri del fumo nero di scarico ti lacrimano gli occhi e ti prende un fastidioso cerchio alla testa e un vago senso di nausea. Ma alla fine eccoci arrivati alla Pediatria di Kimbondo, venti, forse trenta chilometri fuori Kinshasa. Ci accoglie una nebbia surreale, i concerti di rane e grilli e un bel senso di pace e tranquillità; qui l’aria è buona e tutto intorno al complesso ospedaliero ci sono gli alberi. Bisognava attraversare l’inferno per poter apprezzare Kimbondo e la saggezza di Padre Hugo nell’aver mantenuto un piccolo angolo di paradiso all’interno dell’infernale Kinshasa. Il Congo non è un paese per turisti, non è l’Africa stereotipata e preconfezionata per i ricchi cercatori di piaceri europei e ti accorgi subito che qui la vita è molto più dura, nessuno sconto, non c’è spazio per il superfluo e il lusso è sì presente, ma è soltanto un’altra forma di degrado, ancora più perversa. I primi dieci giorni li passo a conoscere il mondo di Kimbondo. Nella Pediatria ci sono più di seicento tra bambini e adolescenti, tutti orfani o comunque abbandonati dalle loro famiglie, molto spesso perché disabili.
E’ comprensibile perché dettata dall’estrema povertà e dalla necessità di mantenere gli altri figli, anche se è difficile da accettare, che in un paese in cui un operaio guadagna tra i 2 e i 3 dollari al giorno non si riesca a garantire quel minimo di dignità a chi ha avuto la sfortuna di non nascere in salute. Ecco allora che in una realtà difficile come il Congo emerge il ruolo di una struttura in grado di garantire ai bambini orfani – alcuni sono stati addirittura trovati nelle discariche – vitto, alloggio e una buona educazione. Inoltre l’ospedale garantisce comunque cure gratuite o semi-gratuite e soprattutto di qualità a chi non può permettersele. Facendo un giro per la neonatologia o a Casa Patrick – dove ci sono i ragazzi disabili – colpisce l’estremo bisogno di attenzioni e soprattutto di affetto di questi piccoli: ognuno di loro ti corre incontro con quell’entusiasmo e quella spontaneità propria dei bambini e ti colpisce al cuore quanto abbiano bisogno non solo di cibo, cure ed educazione, ma anche di una carezza e di qualcuno che sia disposto a donargli il proprio amore. Un’esperienza all’interno della Pediatria di Kimbondo ti cambia radicalmente la vita, non puoi non domandarti quanta poca importanza abbiano le nostre paranoie e i nostri egoismi, insomma le nostre quotidiane fantasie da ricchi.
Finalmente arrivati a Kinta, la fattoria della Pediatria di Kimbondo nel Plateau de Bateke a circa 180 chilometri di distanza e quattro, cinque o anche più ore – dipende ovviamente dall’orario di partenza, perché occorre attraversare gli ingorghi del traffico di Kinshasa, e dalla fortuna, perché quasi ogni notte ci sono incidenti mortali nella strada verso Bankana. A Kinta è bello, il paesaggio varia dai gialli spenti e le scale di verdi più attenuati delle alte erbe della savana al verde più scuro e acceso di quel che rimane della foresta lungo il fiume Lumene. Qui il tempo viene scandito dai lavori agricoli e da una strana divisione della settimana – ogni tre giorni è infatti un jour ancestrale, ovvero una giornata in cui, pur essendo comunque prevista la possibilità di lavorare, occorre lasciare i campi a riposo perché sono le anime degli avi a prendersi cura dei lavori agricoli. La giornata inizia all’alba con le squadre di operai a cottimo che vanno a zappare la manioca, a piantare il mais o a preparare il terreno per la prossima semina. E’ novembre e la stagione delle pioggie, seppur in ritardo, è già iniziata. In genere si lavora fino alle 11, perché più tardi il caldo dei tropici non darebbe tregua e allora ci si ferma per preparare il fufu – una polenta di mais e manioca – e il pondu – foglie di manioca cotte, in genere insieme a cipolle e sardine o arachidi pestate –, i piatti tipici congolesi. Poi si ricomincia a lavorare alle 15 fino alle 18 circa, quando è tempo di accendere di nuovo la braise – la carbonella – e di riscaldare gli avanzi del pranzo.
La sera arriva in fretta qui ai Tropici, il tramonto una questione di una decina di minuti, e poi ci si lascia avvolgere dai rumori della savana congolese – una savana che purtroppo è orfana degli elefanti, delle zebre o dei grandi felini, non più presenti nella zona. Gli strani canti di uccelli esotici a noi sconosciuti, le grida lontane di animali mai sentiti prima si confondono con i canti dei grilli e delle rane che vivono lungo il corso del fiume Lumene e nei vari piccoli stagni della proprietà – il loro gracidio è diverso da quello delle rane di Kimbondo, sembra che delle strane bolle a un certo punto scoppino tutte insieme per diffondere tutt’attorno il loro suono vagamente metallico. In genere la sera si passa a scambiare qualche chiacchera con gli operai e in particolare con i tre ragazzi della Pediatria di Kimbondo, Safi, Peter e Tresor. Tutti e tre hanno una qualche forma di disabilità e il polo agricolo di Kinta è nato proprio per dare lavoro e quindi un reddito a chi purtroppo è troppo disabile per poter competere con lo spietato mondo del lavoro, ma è comunque in grado di dare il proprio utile contributo alla Pediatria di Kimbondo. Mi colpisce la loro curiosità nei confronti del mondo esterno – mi riempiono di domande sull’Italia, su che animali ci vivono, su quanti soldi la gente guadagna e se la varietà di manioca che coltiviamo in Italia viene colpita o meno dal mosaico (la loro meraviglia quando gli spiego che da noi la manioca non viene coltivata).
Una sera Peter, il ragazzo fra i tre che ha meno handicap, mi confessa che vorrebbe anche lui vivere una “vita normale”, come gli operai con cui spesso lavora, che si è innamorato di una ragazza del vicino villaggio di Kinta e che vorrebbe un giorno sposarla – nella cultura congolese è abitudine pagare la “dote” alla famiglia della sposa –, motivo per cui mi ha chiesto rassicurazioni sul suo posto di lavoro nell’azienda agricola di Kinta. Gli ho promesso che farò di tutto affinché il suo posto di lavoro e quindi i suoi sogni potranno rimanere intatti.