Pasto, Nariño
20 maggio 2016.
Un mese dopo.
Un kg in più.
Un centinaio di capelli in meno.
Cinque parole di origine Quechua nel vocabolario.
Due piani di scale ogni mattina (distanza casa – ufficio).
Tre chiavi e ancora mi confondo.
Un coinquilino e mezzo (perché sì il Batioja esiste!)
Cinque caffè durante il giorno.
Zero Cuy nel piatto (Sììì!)
Un apprendista sciamano.
Un’indigena impertinente (“pensavo che gli italiani fossero tutti alti…”)
E molto di più…
“La Colombia è un paese pieno di contrasti, ma t’incanterà…”, questa la frase di benvenuto quando sono arrivata all’aeroporto di Chachagui, a 20 km da Pasto. Ad aspettarmi Harold, il coordinatore dell’Istituto ISAIS, partner del progetto, e Jaime, l’autista di un fuoristrada ACAR e futuro compagno di colazioni interminabili.
Fin da subito è stato chiaro che avrei dovuto rinunciare ad alcune libertà fondamentali, a cui ero abituata nella vecchia Europa, per un piano di sicurezza pensato appositamente per la mia permanenza o per lo meno per il primo mese. Il kit salvavita prevede: evitare di uscire da sola, non rientrare a piedi dopo le 21, camminare interna sul marciapiede, utilizzare espressioni pastuse per depistare potenziali criminali sulla mia origine evidentemente gringa.
Il fatto di finire in una città denominata Pasto non poteva che essere un segno, così che la restrizione di movimento è stata velocemente compensata dall’ampliamento dei buchi sulla cintura: almojabanas, empanada di farina e di mais, buñuelos, arepas (con o senza formaggio), tamales, pan de queso, tante varietà da fare invidia al donut di Homer Simpson. Sì, perché il cibo riveste una parte fondamentale nella quotidianità del Colombiano, che sceglie una dieta varia ed equilibrata a base di uova, riso, banane, patate e carne a colazione, pranzo e cena. Questo non impedisce tuttavia di provare una certa soddisfazione di fronte all’ennesima banana fritta!
Prima di essere un riferimento culinario, Pasto è il capoluogo del Nariño, regione a sud-ovest della Colombia al confine con l’Ecuador e collegamento strategico con gli altri Paesi del Sud America. Stando a quanto riportato dal Piano di Sviluppo presentato dalla Regione il 20 maggio 2016, il Nariño è il “Corazon del Mundo”. Questa definizione si deve alla varietà di ambienti, paesaggi, culture e comunità che lo abitano: si può, infatti, passare dalle zone montuose andine di Ipiales e Pasto, alle spiagge (a quanto pare non delle migliori!) di Tumaco. La conformazione naturale, con fiumi, lagune e sette vulcani, è particolarmente eterogenea e costituisce la principale ricchezza del territorio, che molto deve alle risorse del sottosuolo. La regione è per lo più agricola, coltivazioni di mais, patate, banane, caffè sono tra le più diffuse, tra queste non mancano coltivazioni meno lecite di coca, che scendono dai pendii ripidi delle montagne.
Ma il Nariño è molto di più…è la regione nella quale il conflitto ha riportato una violenza dilagante. La lotta armata si intensificò a partire dalla fine degli anni ’90, con l’arrivo dei paramilitari. Il controllo del territorio risultava un fattore decisivo per il conflitto e per il traffico di droga, cosicché la presenza delle forze di guerrilla e, di conseguenza, dell’esercito nazionale aumentò, con picchi di violenza tra il 2007 e il 2009, che si riflettono in un numero crescente di vittime, circa 50.000 all’anno. Nel 2015, l’Unità di Vittime, ente preposto al riconoscimento e all’assistenza delle vittime di violazioni dei diritti umani, riportava il dato di 14.000 persone colpite in vario modo dal conflitto. Di queste, 12.000 sono state costrette ad abbandonare le loro case a causa della violenza generalizzata perpetrata dalle diverse forze in campo, di cui il macabro primato va all’azione dei paramilitari. Omicidi selettivi, minacce, vendette, sequestri, mine anti-persona, reclutamenti forzati sono le forme più comuni d’intimidazione e di controllo sulle comunità, soprattutto rurali. Il 33,84% delle vittime sono bambini e adolescenti, vale a dire che non superano i 28 anni d’età (CCAH, 2015). All’interno del conflitto sono particolarmente toccati i diversi gruppi etnici, a causa della marginalizzazione dovuta al distaccamento territoriale, dello sfruttamento sconsiderato dei loro territori da parte delle forze armate con coltivazioni illecite e della mancanza di protezione giuridica da parte del governo centrale.
Chiunque, dall’indigeno usurpato del proprio territorio, al campesino che divide, con una precisione chirurgica, le coltivazioni di patate da quelle di coca, allo studente costretto a studiare all’estero, al bambino già abituato alla paura, è toccato dal conflitto. Un conflitto trasversale con cui si può solo convivere, tra un’empanada di farina e un caffè decisamente annacquato, senza smettere di credere fortemente che un giorno si potrà raggiungere la pace e condurre una vita normale…
Il 25 aprile in Italia si festeggiava la festa della Liberazione e le piazze delle città si riempivano di persone che rievocavano gli ideali della resistenza con la nostalgia di un’adrenalina non vissuta e con il sogno di un immaginario rivoluzionario. Lo stesso giorno, a Samaniego veniva sequestrato un ragazzo di 16 anni, la normalità per una città che sembra quieta come un vulcano attivo, così abituale che a cena i discorsi si confondono tra il lavoro del giorno e i racconti sulle modalità e i presunti responsabili del sequestro. Il 26 aprile è stata organizzata una manifestazione nella piazza centrale, c’erano gli studenti delle scuole di vari gradi e chiedevano la libertà del ragazzo, gridando “…qui stiamo lottando per la pace a Samaniego! Qui stiamo lottando per la pace nel Nariño!”. Qui, in Colombia la resistenza è semplicemente un fatto.