SANDE COAST TO COAST
Susanna Svaluto
Nariño è conosciuto per racchiudere nei suoi paesaggi tutte le tonalità di verde (altro che le matite della Giotto!), tuttavia nel Resguardo indigeno del Sande il verde predominante è uno: quello delle coltivazioni di coca, la principale fonte di ingresso economico per la comunità spersa tra i monti ai confini del mondo.
La comunità indigena si identifica in due termini: “Resguardo”, che indica il territorio fisico di appartenenza alla comunità, e “Cabildo”, che rappresenta l’organizzazione politica. Le comunità indigene si contraddistinguono per il forte legame con la pachamama, la madre terra, con la quale esiste una relazione ancestrale: infatti, privare un indigeno del territorio significa contribuire inesorabilmente a distruggerne l’identità. Il Resguardo del Sande fa parte del Comune di Santacruz, a tre ore di fuoristrada da Samaniego, tra polvere e curve di montagna, e un’ora a piedi, a passo indigeno, o due, a passo cittadino, nel fango più totale.
Una parte importante delle attività di formazione e di sostegno alla partecipazione promossa dal progetto DUPLA PAZ si svolge nel Sande, dove, per poter letteralmente “entrare”, è stato necessario aspettare due mesi per verificare le condizioni di sicurezza. Perché, inizialmente i gruppi armati, che controllavano il territorio, erano due: Farc e Eln. Ad oggi, in seguito all’annuncio della firma degli accordi di pace, le FARC si sono ritirate dalla zona e hanno iniziato a dirigersi nelle aree di concentrazione, che per la regione del Nariño sono Tumaco e Policarpa. Tuttavia, i segni ci sono ancora: le bandiere delle Farc sono tuttora presenti all’interno del territorio, a cui da un mese a questa parte si sono aggiunte quelle dell’Eln, di dimensioni decisamente più ridotte. I gruppi di guerriglia, che da più di 30 anni sono stabili nell’area, oltre alle tipiche mansioni della guerra, si dedicano anche ad alcune attività sociali, sostenendo costruzioni e tornei di calcio… e può capitare di sentirsi sperduti di fronte a qualcuno con indosso una maglietta rossonera e la scritta Fly Emirates, perché quella…non è la maglietta del Milan, bensì dell’Eln.
La “Punta”, dove ci lascia il fuoristrada, segna un limite tra la Colombia che conosci e un’altra del tutto surreale, che inizia con il baracchino dove i mezzi di trasporto ufficiali, ovvero i muli, per proseguire, devono pagare il pedaggio (!), perché la strada non arriva fino al Sande e nemmeno la linea telefonica. In un’ora di cammino ti ritrovi all’origine di tutto ciò che hai studiato, la Convenzione di Palermo, i traffici illegali… Ora sei nel fulcro: piantagioni di coca e miniere illegali, tutto alla luce del sole, tanto che la ragazza indigena che ci accompagna mi regala un “pezzo d’oro grezzo”, certo bisogna lavorarci, però non si sa mai…
La comunità indigena del Sande conta 21 veredas (frazioni) per un totale di 3000 abitanti ed è stata riconosciuta ufficialmente dal Governo nel 1997, nonostante le persone si siano stabilite in quest’area più di 1000 anni fa. Il punto più vicino, dove si trovano la sede del Cabildo, la scuola e l’infermeria, è a un’ora di cammino, mentre le altre veredas si trovano anche a 5/6 ore, tutte piacevolmente nel fango. La principale autorità è rappresentata dal Governatore e dalla Corporazione, un consiglio politico, che regolano l’amministrazione del Cabildo in maniera collettiva. La difesa del territorio e, in senso più ampio, dei diritti umani è affidata alla guardia indigena, un corpo civile di protezione territoriale, formato da uomini, donne e bambini che fungono, secondo una visione ancestrale, da guardiani della vita della comunità.
Nel Sande c’è di tutto: dalla tarantola nascosta tra i materassi al nostro arrivo, ai serpenti (per fortuna solo menzionati), alle scritte delle Farc sul muro di ogni casa che inneggiano alla rivoluzione (giusto per ricordarsi chi controlla l’area), alle mine anti persona disposte qua e là da entrambi i gruppi armati per disincentivare l’esercito ad entrare. Le mine costituiscono uno dei lasciti più pericolosi di questa guerra, soprattutto perché molti di coloro che le hanno disposte nel frattempo sono morti e molte aree sono tuttora off-limits.
Prima di avviare la formazione prevista dal progetto DUPLA PAZ, è sempre bene verificare le conoscenze di base, così che alla domanda “sapete dov’è l’Italia?”, la risposta, all’unisono negativa, lascia qualche perplessità. Proviamo, quindi, a vedere con l’ex madrepatria, per colpa della quale queste comunità si sono spinte ai limiti del mondo, e nemmeno questa domanda trova risposta positiva. Va bene ripudiare la colonizzazione, però davvero una persona non si chiede cosa c’è più in là di Samaniego, Pasto, Nariño, Colombia?
Il dialogo continua: “… Che cosa significa vittima?” “Mm beh, molti di noi hanno ricevuto minacce, come mio padre per esempio, fino a qualche anno fa avevamo il coprifuoco dopo le sei del pomeriggio, tuttora non possiamo camminare liberi per il territorio per colpa delle mine, durante gli scontri a fuoco tra i gruppi di guerrilla rimanevamo chiusi in casa e quando terminavano e uscivamo incontravamo i corpi e dovevamo passare in mezzo, con i nostri figli… Non so, credo che questo sia essere vittima no?” Così timidamente, quasi in soggezione per non dire qualcosa di sbagliato, con il capo della guardia indigena riflettiamo sul concetto di vittima, il quinto punto dell’agenda di pace concordata tra le FARC e il Governo; è l’unico del mio gruppetto di lavoro che si azzarda a dire qualcosa, gli altri ascoltano, annuiscono timidamente, ma non si espongono. Non è una mancanza di curiosità, ma anni di conflitto in cui sono stati costretti a voltarsi dall’altra parte, a non guardare, a non ascoltare, a non parlare, fino a non pensare per puro spirito di sopravvivenza. Così che, forse, dove sia l’Italia è l’ultimo dei loro problemi. Ma con un disegno stilizzato del mondo e con gli stivali ai piedi a indicarne la forma, non sembra poi così difficile immaginare che esiste qualcosa di diverso, appena un po’ più in là, con cui si può condividere un pezzo di cammino.
Ed è così che la diffidenza iniziale nei confronti dello straniero, per il fatto di essere stati depredati per anni da qualsiasi forza in campo, si riduce passo a passo, nel bosco, lungo il sentiero che porta al fiume, dove si può fare il bagno nell’acqua limpida, spersi nella giungla selvaggia a stretto contatto con gli antenati. Proprio lì, nel mezzo, sorge la “Piedra de Cara”, simbolo del popolo ancestrale Sindawa, predecessore della comunità indigena Awà del Sande, dove ci sono le incisioni su pietra degli indigeni che vivevano nella zona centinaia di anni fa. Le interpretazioni sono varie, ma si possono vedere chiaramente una famiglia, delle onde che simboleggiano il fiume e dei guerrieri, oltre al disegno del “churo cosmico”, la spirale simbolo dell’infinito che si ritrova in molte immagini indigene del Sud America.
Emerge forte lo spirito di collettività, che si può vedere nelle relazioni, quando si deve chiedere al vicino che porti qualcosa al familiare che vive a cinque ore da lì, nell’ospitalità del Cabildo e nei pranzi e cene comunitarie. In mezzo a tutto questo mi offrono un “envuelto”, dicono sia delizioso…. È un impasto di farina di mais e formaggio, racchiuso all’interno di una foglia di banana e cucinato in acqua bollente. Il gusto ha qualcosa di familiare e anche la consistenza… Ebbene sì, difficile trattenere l’emozione per una veneta in trasferta, è proprio polenta! In quest’angolo di mondo, con una comunità indigena, una natura selvaggia, i gruppi di guerriglia, le miniere illegali, una pietra sacra inesplorata, la guardia indigena che protegge la comunità con dei bastoni… Per un attimo o poco più, mi sono sentita a casa!