«A Genova sarebbe molto importante esserci. Bisogna dare un segno, una testimonianza, bisogna essere presenti e mostrare la faccia».
Era questo il refrein che, come un mantra, rimbombava nelle menti di molti di noi nel luglio di 20 anni fa. Quanto era successo a Seattle era la dimostrazione che quando i movimenti dal basso portano ragioni fondate e fanno sentire la loro voce e la loro presenza possono ottenere grandi risultati. Il 30 novembre 1999 si erano riversate nelle strade di Seattle oltre 40mila persone per protestare contro una globalizzazione selvaggia e prevaricante nei confronti dei diritti umani delle persone più deboli. La protesta aveva ottenuto 2 grandi risultati:
- una grande eco a livello mediatico globale, grazie a cui finalmente le richieste del nascente movimento altermondialista diventavano di dominio pubblico e oggetto di discussione da parte di un numero crescente di stakeholders;
- la cancellazione del programmato vertice del WTO impedendo fisicamente, e quindi di fatto, che molti potenti del mondo si potessero incontrare per firmare accordi che avrebbero nell’immediato portato gravi danni a chi quegli accordi li avrebbe subiti sulla propria pelle.
Erano queste le premesse, cariche di ottimismo e di speranza, che ci avevano portato a metterci sulla A4 in direzione OVEST per raggiungere Genova il 20 luglio 2001. Premesse che avevano dell’incredibile, perché a Seattle una manifestazione pacifica aveva impedito il concretizzarsi di politiche prevaricanti e oppressive per milioni e milioni di persone al mondo.
Sono proprio queste 2 variabili (l’eco a livello mediatico e la soluzione pacifica a un’economia ingiusta e prevaricante) che sono state prese in considerazione dai grandi burattinai del tempo, che sono state temute, sono state studiate e proprio su quelle 2 variabili è stato in seguito preparato il grande trappolone di Genova 2001.
A Genova bisognava andare, il grande inganno della globalizzazione neoliberista ormai era stato svelato e doveva essere trasmesso in mondovisione. Per questo motivo oltre 300mila persone si sono riversate nelle strade di Genova nel luglio del 2001, per dire no alla globalizzazione della povertà (come la chiama da sempre Michelle Chossudowsky), per dire NO al potere di pochi sulla vita di molti, per dire di NO al grande inganno dei trattati di libero scambio, per urlare e difendere la dignità dei lavoratori di tutto il mondo, per spiegare al mondo che molti, troppi paesi stavano rimanendo indietro, troppo indietro, per condividere con tutto il mondo che l’affermazione del business a scapito della tutela dell’ambiente avrebbe portato a catastrofi naturali, al surriscaldamento del pianeta e alla nascita – prima o poi – di masse di migranti “climatici”. Volevamo dire alla gente che in un mondo dove il 20% della popolazione vive con l’80% delle risorse disponibili e che il rimanente 80% della popolazione è costretto a dividersi il 20% delle risorse rimanenti avrebbe portato alla genesi di flussi di migranti incontrollabili. “C’è da augurarsi che un giorno vengano a prendersi la ricchezza che gli stiamo togliendo in modo pacifico e non bellicoso” dicevamo.
Mentre il movimento dei movimenti affilava le lame della dialettica e della controproposta i potenti della terra stavano lavorando sulle 2 suddette variabili (la grande eco e l’azione pacifica del movimento). Erano entrambe variabili da mettere in discussione, da ribaltare e trasformare. A chi manovrava i fili dell’economia mondiale non interessava più lo scontro dialettico, sapevano di aver già perso su quel fronte, la decisione fu quindi quella di spostare lo scontro proprio sul ribaltamento della natura pacifica del movimento e sulla distruzione mediatica dello stesso.
Tutti sappiamo alla fine come sono andate le cose. A Genova vennero sospesi i diritti umani (come Amnesty International denunciò più volte), a Genova comparvero folti gruppi di black block (solo alcuni sparuti gruppuscoli di loro erano comparsi a Seattle), personaggi scuri e violenti di cui ancora oggi, a distanza di 20 anni, si sa poco circa la loro provenienza. I black block sparsero violenza ovunque all’interno delle manifestazioni, confondendosi con i manifestanti pacifici. I black block e la polizia misero a ferro fuoco una città in cui il tempo, i diritti, il buon senso e la pace vennero sospesi. La polizia, sotto la regia dall’allora Ministro dell’Interno Scajola (quel personaggio che anni a seguire affermò di non sapere chi avesse pagato al posto suo una casa a lui intestata davanti al Colosseo) e del Vice Presidente del Consiglio Gianfranco Fini (anch’egli oggi finito nella spazzatura della recente storia d’Italia), usò lacrimogeni come caramelle, caricò e picchiò in tutti i modi migliaia di manifestanti pacifici. La successiva mattanza al dormitorio della scuola Diaz e le torture (così definite dai giudici) presso la caserma di Bolzaneto furono l’apice di una manovra di Stato becera, selvaggia e degna della memoria di personaggi come Pinochet o Videla. A Genova si scatenò l’inferno. Le televisioni di tutto il mondo erano sintonizzate sul capoluogo ligure e in TV i manifestanti venivano confusi con i violenti, le auto bruciavano, il fuoco e il catrame nero per le strade mostravano al mondo un volto di certo non pacifico della manifestazione, un “rostro” violento e selvaggio creato ad arte. Persino l’assassinio di Carlo Giuliani (un “ragazzo”) venne fatto passare per il tentativo di arginare un moto di violenza incontrollabile. Il Padre Giuliano e la Madre Haidi non hanno mai trovato pace né tanto meno giustizia nei tribunali del nostro Paese.
A Genova venne sospeso tutto: il diritto, la dignità, il buon senso, l’umanità. A Genova venne ferita gravemente la speranza (quella è sempre l’ultima a morire) per un mondo non solo migliore ma più consapevole. Il movimento no-global ne uscì mediaticamente a pezzi, umiliato, frustrato e sbeffeggiato sui media di tutto il mondo. L’avanzata pacifica venne sporcata col sangue e il fuoco. Il Movimento aveva ragione su tutto e oggi la realtà è sotto gli occhi di tutti, ma non era ormai più autorevole per veicolare la ragione delle sue argomentazioni e delle sue proposte.
Le suddette 2 variabili erano state irrimediabilmente ribaltate: per la maggior parte delle persone il Movimento non era pacifico ma violento e da un punto di vista mediatico questa era la verità che passava. I contenuti non interessavano più.
Ma cosa ha significato Genova per molte persone?
Beh posso dire che per me ha significato molto. Rielaborando il vissuto di Genova ho pensato che bisognava cambiare strategia, bisognava rimboccarsi le maniche, essere coerenti e mettersi in discussione. Bisognava adoperarsi per portare risultati concreti laddove c’è bisogno. La protesta non era più l’unica via, e soprattutto mediaticamente era difficile farsi ascoltare. Oltre alla protesta dovevano esserci la proposta e l’azione. È senza dubbio anche a Genova che è nata OIKOS, dalla presa di coscienza che bisognava fare qualcosa di concreto, rimanendo coerenti e mettendosi in gioco. E così hanno fatto in molti che oggi popolano e agiscono in prima persona il pensiero altermondialista.
Dire cosa ci è rimasto dell’esperienza di Genova è questione molto soggettiva. Ognuno ha un suo vissuto che ha dovuto rielaborare, ognuno ha tratto le sue conclusioni, ognuno ha i suoi ricordi.
Sono tanti i sentimenti, i ricordi, le sensazioni che mi porto dietro dall’esperienza di Genova. È molto triste dirlo ma da Genova in poi ho perso molta della fiducia che potevo avere nei confronti delle Istituzioni e delle forze dell’ordine in particolare. Ancora oggi quando mi ferma la polizia, magari per un semplice controllo di routine in auto, provo un senso di disagio e la fiducia nei confronti della divisa non è il primo sentimento che mi riempie il cuore. Ho capito che la forza dell’eco mediatica può essere dirompente ma anche molto difficile da maneggiare. Mi sono rassegnato al fatto che una giustizia su ampia scala non sia a portata di mano e che ognuno di noi debba adoperarsi per cercare di avere un impatto positivo su ambiti ristretti, su piccole comunità, cercando di percorrere insieme alle persone che incontra nel mondo pezzi di cammino congiunti, cercando di seminare una cultura della solidarietà e dei diritti umani, nella speranza un domani qualcuno possa raccoglierne buoni frutti. Mi sono infine fatto persuaso (scusate la somma citazione) che la capacità di argomentazione mediatica e l’abilità nella veicolazione dei messaggi (vedi come oggi volano le fake news sui social media) siano di fatto fattori vincenti rispetto alla natura e alla forza del messaggio stesso. Conta sempre meno il contenuto e sempre più il modo in cui viene trasmesso. Non ultima la convinzione che il rispetto dei diritti umani e della dignità della persona sia ormai da tempo patrimonio della cultura e della formazione personale di una sempre più ristretta minoranza di persone (anche la recente decisione del Parlamento Italiano, presa a larga maggioranza, di rifinanziare il sostegno alla guardia costiera libica per il respingimento dei migranti in mare ne è l’ulteriore, ennesima, riprova).
Lasciando da parte le considerazioni personali e il vissuto di chi scrive, sarebbe importante invece recuperare proprio i contenuti del messaggio del movimento altermondialista che è nato dalla rivoluzione Zapatista in Messico, si è snodato per le strade di Seattle nel 1999 sino ad arrivare alla marcia di Marcos a Città del Messico nel 2001, per poi planare sotto i media di tutto il mondo nella grande trappola di Genova. Recuperare gli obiettivi del movimento, i contenuti della sua piattaforma di proposte, le riflessioni connesse alla critica economica, l’approccio globale ai sistemi di sostenibilità economica, significa attribuire alle proposte del Movimento Altermondialista il riconoscimento di una grande attualità dei temi trattati. Sì perché molti dei problemi per cui era nata la protesta oggi sono più attuali che mai e molte delle previsioni fatte dagli economisti e studiosi che hanno ispirato il movimento si sono evoluti proprio nella direzione indicata.
- Lo squilibrio fra i grandi potentati economici e il potere decisionale degli Stati Nazione è aumentato, a netto favore dei primi
- La prevaricazione degli interessi delle grandi industrie multinazionali nei confronti dell’ambiente è oggi uno dei temi globali per eccellenza. Non a caso i Governi di tutto il mondo stanno correndo ai ripari con decisioni molto drastiche che influiranno sui sistemi di produzione rispetto alla questione del riscaldamento globale
- Il crescente squilibrio nella distribuzione mondiale delle risorse ha portato, così come previsto, allo sviluppo di flussi di profuganza epocali, schiere di migliaia di persone che ogni anno si affacciano ai confini dell’Europa, degli Stati Uniti e del Canada e/o nei mari dell’Oceania in cerca di un futuro migliore. E meno male che sino ad oggi il loro approccio è decisamente pacifico.
- Gli squilibri e le assurdità delle speculazioni finanziarie prodotte su scala globale sono scoppiati in vere e proprie crisi che hanno lasciato pesanti cicatrici sulle economie di tutto il mondo. La crisi della fine degli anni 2000 ne è una delle testimonianze più stringenti
- La grande attenzione alla preservazione e protezione dei popoli indigeni è oggi entrata a pieno titolo nell’agenda delle Nazioni Unite
- Una riconsiderazione del ruolo della Donna costituisce ad oggi una delle speranze per un futuro migliore per tutta l’umanità, e non solo per questioni connesse all’emergenza demografica
- Anche il rispetto dell’identità di genere e la valorizzazione delle pari opportunità sono diventate pilastri degli obiettivi di sostenibilità delle Nazioni Unite
- Le stesse Nazioni Unite hanno riconosciuto che la dimensione ottimale per la produzione agricola, per poter assicurare una equa distribuzione delle derrate alimentari e riconoscere dignità ai coltivatori diretti, è quella dell’agricoltura famigliare. Ovunque sono stati riconosciuti i danni portati dall’agribusiness e ovunque sono stati riconosciuti i danni delle monocolture e delle coltivazioni intensive.
- Lo stesso approccio partecipativo alla gestione degli aggregati urbani, ove praticato, si è dimostrato il modo di fare politica più efficace e in grado di adottare soluzioni più inclusive. Basterebbe recuperare le prassi di partecipazione democratica proposte dal Movimento Altermondialista per cominciare a vincere la grande sfida delle periferie urbane degradate.
Quelli appena elencati sono tutti temi che erano parte integrante dell’agenda del Movimento dei Movimenti e che hanno animato i meravigliosi dibattiti dei Social Forum Mondiali e locali in anni di fermento, ricerca, confronto e condivisione. Quello partito dal Chiapas, Città del Messico, Seattle e Genova è stato un movimento che basava la sua piattaforma sulle elaborazioni di economisti, filosofi, sociologi, ambientalisti, manager, urbanisti. Le proposte di cambiamento erano di assoluto spessore e sono ancora oggi assolutamente valide e in sintonia con le esigenze di giustizia sociale, equità e tutela dell’ambiente proprie degli anni che corrono.
A 20 anni da Genova forse non siamo ancora tardi per recuperare idee, entusiasmo, fare scommesse e proposte per un mondo migliore …. un altro mondo è ancora possibile.